«Dopo Anversa è stato Jannik a dirmi: “Voglio giocare le Next Gen Finals”». Riccardo Piatti, il coach di Jan, ha molta esperienza e il pallino della programmazione. È convinto che per diventare professionista, assolto il capitolo del talento, ci sia una strada da percorrere. Un metodo da seguire. Una serie di tappe, quasi sempre obbligate. A volte forzate.
In quasi quarant’anni ne ha allenati tanti che valevano fatica e biglietto: Cristiano Caratti, Renzo Furlan, Omar Camporese fra anni Ottanta e Novanta, Novak Djokovic quando il Djoker era un cucciolo dallo sguardo curioso, non ancora il killer di oggi. E poi Richard Gasquet, Ivan Ljubicic, Milos Raonic. Etnie, tipologie e anche generi diversi di tennista, considerato che senza monocolo, ma con la stessa ammirata dedizione di Erich von Stroheim, fra 2019 e 2020 ha accompagnato la diva Sharapova sul viale del tramonto (tennistico). Sinner è il suo assegno in bianco per la pensione. Te lo dice anche lui, scoccando lo sguardo azzurro da ragazzino dietro un reticolo di rughe bruciate dal sole. Ma per incassarlo non bisogna smarrire la strada.
Il Piatti Tennis Center è piazzato su uno dei balzi che a Bordighera scendono verso il mare. Bordighera è il luogo dove è iniziato il tennis in Italia. Centoquarantadue anni fa una delle casse del maggiore Wingfield, con dentro tutto il necessario per montarsi un campo da tennis in giardino, arrivò a destinazione nella piccola colonia inglese affacciata sul mare di Imperia, 3.000 expats alla disperata ricerca di un passatempo, e fu subito Bordighera Lawn Tennis Club. Era il 1878, a Worple Road i Championships erano nati un anno prima. Primo presidente, l’inevitabilmente inglese Charles Lowe. I due campi che si possono vedere ancora oggi, con la chiesa presbiteriana sullo sfondo, risalgono ad allora, anche se un tempo correvano paralleli, e non perpendicolari come oggi, alla Club House.
Piatti aveva anche pensato di piazzarla lì, la sua Academy, poi ha preferito arroccarsi in collina. Sei campi, palestra, un ristorante vista mare con foresteria in convenzione. Tutto molto cool, fra l’high-tech e il familiare. Il luogo adatto per ricominciare a scrivere la storia guardando dall’alto l’approdo sacro.
«Ce ne sono un paio di buoni,» mi dice nel 2017 «una è una ragazzina metà italiana e metà americana, l’altro è quel ragazzo lì. Si chiama Sinner.» Un cesto di capelli rossi montato sul corpo di un fenicottero che si muove con grazia tutta sua sul campo. Dietro gli occhi larghi, che tengono sotto controllo il mondo, c’è un sogno verticale.