La grande bellezza

In un anno normale, oggi si sarebbe giocato l'ultimo atto del torneo di Indian Wells. Il pensiero del nostro biblista Ludwig Monti va alla splendida finale del 2017, vinta da Roger Federer su Stan Wawrinka. Un'autentica, grande bellezza

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Foto Ray Giubilo

Giorni duri, pesanti, tristi. Quaresima che sfocerà in una Pasqua mesta, non celebrata insieme. Giorni nei quali, per resistere, tristezza è chiamata a fare rima con bellezza. E su quest’ultima Roger è maestro, il maestro dei maestri. Mentre dunque si moltiplicano le iniziative volte a far rivedere highlights o match interi di ogni sport, per dare un po’ di tregua alla quarantena e a pensieri pandemici, dall’isolamento di una cella monastica vado a ripescare nel mio archivio sentimentale un match che avevo catalogato, senza troppa fantasia, come “la grande bellezza”.

Oggi avrebbe dovuto giocarsi la finale di Indian Wells. Solo tre anni fa, ma oggi sembrano molti di più, la finale era un classico della bellezza tennistica: il derby svizzero, Roger-Stan, che non ha una sigla tipo “Fedal” solo perché la bellezza non si può restringere in un’etichetta. Era l’inverno-primavera 2017, quando il Re era tornato prepotentemente sul trono. Pareva un miracolo, sembrava imbattibile: Australian Open e Sunshine double in un batter d’occhio, battendo back to back to back Rafa. Tre mesi da non credere, impreziositi in luglio dalla vittoria a Wimbledon…

Ripesco i miei appunti… e torniamo al 19 marzo 2017: Federer-Wawinka, 6-4 7-5. E anche se il pezzo è un po’ più lungo, in questi giorni purtroppo il tempo non manca!

Stan “the man” Wawrinka è cresciuto e vissuto all’ombra di Roger. Amici, i due, tanto che nel discorso post-partita, dopo essersi commosso per un cocktail di tristezza e stanchezza e aver visto Federer ridere, Stan lo chiama amabilmente “asshole”, “stronzo”. Ma sul campo ogni parola viene sospesa dalla bellezza che i due sanno creare: velocità, precisione, accuratezza, potenza, ricami artistici. Bellezza per la bellezza, pura, semplice, nitida, gioiosa, luminosa, ardita e umile: bellezza delle bellezze, che nella mia mente risuona in modo analogo al piccolo capolavoro biblico denominato Cantico dei cantici, cioè il cantico, il canto per eccellenza.

Meravigliosi, soprattutto, gli scambi di rovescio a una mano in diagonale, che si vorrebbe non finissero mai. Sembra di vedere, trasposti sul rettangolo di gioco, i dialoghi dei personaggi di E le altre sere verrai?, incomparabile romanzo di Philippe Besson. Oppure, per contrasto, vengono in mente alcuni dialoghi allucinati nei film di Tarantino, che apparentemente non c’entrano nulla con la trama degli avvenimenti. Siamo su un campo da tennis, ai massimi livelli, ma per alcuni istanti siamo nel surreale: il suono che sibila dalle racchette somiglia a una melodia, la rete che la palla supera di millimetri sembra sparire, volée di diritto o di rovescio come carezze divine… Aveva ragione Dante: “Trasumanar significar per verba / non si poria”!

Andate, vi prego, a rivedere per intero questa partita: da qualche parte la si troverà… Non accontentatevi di una sintesi, né tanto meno di stralci delle varie sfide tra Roger e Stan. Non rendono giustizia, perché fareste l’errore di pensare che siano perle scelte in mezzo a tanta sabbia. E invece no, in questa finale di Indian Wells siamo in presenza di 80 minuti di quasi ininterrotta meraviglia. I due amici svizzeri fanno sì che l’inedito diventi una costante, che gli spettatori attenti e coinvolti possano dimenticare le fatiche e le brutture della vita, per “indiarsi” (ancora l’Alighieri), avvicinandosi a Dio o a Chi per lui. E ogni “Oh!”, ogni applauso, ogni sbigottimento è un grido contro la morte: “No, non finire, non finite, vi preghiamo!”. È una preghiera alla bellezza sperimentata per sé, nella speranza che possa avvenire una sua immediata trasfusione nella quotidianità di chi osserva. Ne usciamo resi più belli, forse anche più buoni.

Scriveva Edgar Lee Masters: “Quando ero giovane, avevo ali forti e instancabili, ma non conoscevo le montagne. Quando fui vecchio, conobbi le montagne, ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione. Il genio è saggezza e gioventù”. Qui siamo sulle vette, in compagnia di quella saggezza forgiatasi mediante una vita di allenamento, di esercizi compiuti ancora e ancora, di sudore e ripetitività: il tutto trasformato, per immediata e diretta magia, in attualissima e rinnovata novità, qui e ora. E la gioventù? Certo, l’anagrafe parla chiaro, né si potrebbe pensare che Roger potesse toccare tali apici di completezza quando era poco più che ventenne. Per onestà, alcune magie compiute da Federer tra il 2003 e il 2007, gli anni del suo dominio incontrastato, hanno una bellezza e una strafottenza giovanile irripetibili, paragonabili forse solo al piacere che si prova quando nel pieno fulgore estivo si morde una pesca turgida e succosa. Ma in questo luminoso 2017, estate autunnale, la bellezza è un profumatissimo distillato: la forza della gioventù è come abbracciata dalla sapienza che nasce da vent’anni di esperienza. La memoria del corpo che da due terzi della vita si muove in quei 23,77 × 10,97 m, come un pesce nell’acqua, si fonde con l’innato talento e con l’acutezza mentale che sa discernere cosa fare, come farlo, quando farlo. Risposta in atto, su un campo da tennis, alla domanda di Gesù: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca 12,57).

Ma lasciamo l’ultima parola al sapiente biblico: “Se gli umani, affascinati dalla bellezza delle creature, le hanno prese per dèi; se colpiti da meraviglia per esse non sono stati capaci di contemplare, attraverso la loro grandezza e la loro bellezza, il loro autore, per costoro leggero è il rimprovero. Le cose viste, infatti, sono così belle!” (Libro della Sapienza 13,3-7). L’idolatria della bellezza, anzi della bellezza della bellezza, è quasi scusabile. Più forte il rimprovero per chi, distratto, non la sapesse cogliere.

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