Stan “the man” Wawrinka è cresciuto e vissuto all’ombra di Roger. Amici, i due, tanto che nel discorso post-partita, dopo essersi commosso per un cocktail di tristezza e stanchezza e aver visto Federer ridere, Stan lo chiama amabilmente “asshole”, “stronzo”. Ma sul campo ogni parola viene sospesa dalla bellezza che i due sanno creare: velocità, precisione, accuratezza, potenza, ricami artistici. Bellezza per la bellezza, pura, semplice, nitida, gioiosa, luminosa, ardita e umile: bellezza delle bellezze, che nella mia mente risuona in modo analogo al piccolo capolavoro biblico denominato Cantico dei cantici, cioè il cantico, il canto per eccellenza.
Meravigliosi, soprattutto, gli scambi di rovescio a una mano in diagonale, che si vorrebbe non finissero mai. Sembra di vedere, trasposti sul rettangolo di gioco, i dialoghi dei personaggi di E le altre sere verrai?, incomparabile romanzo di Philippe Besson. Oppure, per contrasto, vengono in mente alcuni dialoghi allucinati nei film di Tarantino, che apparentemente non c’entrano nulla con la trama degli avvenimenti. Siamo su un campo da tennis, ai massimi livelli, ma per alcuni istanti siamo nel surreale: il suono che sibila dalle racchette somiglia a una melodia, la rete che la palla supera di millimetri sembra sparire, volée di diritto o di rovescio come carezze divine… Aveva ragione Dante: “Trasumanar significar per verba / non si poria”!
Andate, vi prego, a rivedere per intero questa partita: da qualche parte la si troverà… Non accontentatevi di una sintesi, né tanto meno di stralci delle varie sfide tra Roger e Stan. Non rendono giustizia, perché fareste l’errore di pensare che siano perle scelte in mezzo a tanta sabbia. E invece no, in questa finale di Indian Wells siamo in presenza di 80 minuti di quasi ininterrotta meraviglia. I due amici svizzeri fanno sì che l’inedito diventi una costante, che gli spettatori attenti e coinvolti possano dimenticare le fatiche e le brutture della vita, per “indiarsi” (ancora l’Alighieri), avvicinandosi a Dio o a Chi per lui. E ogni “Oh!”, ogni applauso, ogni sbigottimento è un grido contro la morte: “No, non finire, non finite, vi preghiamo!”. È una preghiera alla bellezza sperimentata per sé, nella speranza che possa avvenire una sua immediata trasfusione nella quotidianità di chi osserva. Ne usciamo resi più belli, forse anche più buoni.