di Stefano Semeraro - 05 March 2020

Ribelle e giocoliere, la doppia anima di Bublik

Gran servizio, colpi imprevedibili. Il russo che gioca in Davis per il Kazakistan ha un modo molto rilassato di intendere il tennis. E funziona.

Il ribelle dalla risata facile

Are you serious?». No, non è John McEnroe.

Il SuperMoccioso in campo ci andava giù pesante con le proteste, mentre Alexander Stanislavovich Bublik - perché è di lui che stiamo parlando - anche quando si arrabbia lo fa con leggerezza. Come a Melbourne, quando dopo una chiamata clamorosamente sbagliata di un linesman, e corretta a suo favore dall’Occhio di Falco, Alex si è seduto a terra, fra l’indispettito e l’esilarato, e la contestazione è sfumata in un siparietto. Una risata vi travolgerà, scrivevano sui muri nel ’68, quando anche il tennis viveva la sua rivoluzione. Alex non se lo può ricordare, ha appena 22 anni, ma a volte in campo, e fuori sembra un situazionista del tennis. Un libertario che meno sente vincoli, e più ottiene risultati.

Bublik è nato in Russia, ma gioca in Coppa Davis per il Kazakistan perché per il momento la lista d’attesa di Safin e Tarpishev è parecchio lunga (e la paga kazaka è buona).

I numeri, peraltro, non gli mancano. Tanto per dire: al suo primo match nel tabellone di uno Slam, nel 2017, ha seccato Lucas Pouille. L’elenco di scalpi eccellenti non finisce lì: Roberto Bautista Agut (l’anno prima alla Kremlin Cup), Tennys Sandgren a Miami, Taylor Fritz e Grigor Dimitrov sulla strada della sua seconda finale in un Atp 250, persa a Chengdu nel 2019 contro Pablo Carreno Busta. La prima l’aveva lasciata a Newport contro John Isner, qualche mese prima. L’anno scorso, dopo un 2018 tormentato, è stato quello dell’esplosione, con l’ingresso fra i primi 50. Al servizio picchia durissimo, Alexander, ma il suo è un tennis completo, vario, spesso imprevedibile: ti fermi un minuto a guardarlo e non ti stacchi più. Ma è anche molto piacevole chiacchierarci nella hall di un albergo a Doha, godendosi il tramonto.

"Ho provato a essere più professionale, ma non faceva per me"

Alex, allora: hai deciso cosa è il tennis per te?

«Un gioco. Niente di più. Non pretendo di parlare per tutti, intendiamoci. Certo, si può anche arrivare ad un punto in cui in ballo ci sono un sacco di soldi, e quindi puoi guadagnare molto e viverci, ma alla fine essenzialmente resta un gioco che mi piace giocare. Non sono mai stato top-10, non ancora almeno, ma credo che anche se ci arrivassi, continuerei a pensarla così. Quando in ballo ci sono i soldi tutto diventa serio, più duro, nello sport come nella vita. Io ho 22 anni, magari le cose cambieranno in futuro, ma per ora voglio soprattutto divertirmi».

Perché hai scelto questo sport?

«Non l’ho scelto. E’ stato mio padre Stanislav, che è un maestro di tennis e oggi il mio coach, a portarmi sul campo quando avevo 2 o 3 anni. Sono nato con la racchetta in mano. Mi hanno detto: dai, gioca. Non ho avuto scelta».

Vorresti fare qualcos’altro?

«No, al momento no: cosa mai potrei fare? Non vedo alternative (e ride, ndr)».

Sei alto quasi due metri: magari il cestista.…

«Il mio padrino è un famoso allenatore di basket, ha vinto un paio di campionati femminili russi. Il basket mi piace, posso giocarci, ma sono meglio a tennis»

C’è un segreto per vincere senza prendersi troppo sul serio?

«Non ne ho idea. Non so cosa dirti. Quando sono entrato fra i top 100 la prima volta avevo 19 anni e la prendevo ancora meno seriamente di adesso. Facevo cose davvero stupide. Così mi sono detto: okay, devi ascoltare di più Corrado (Tschabusnig, il suo manager italiano, ndr), devi essere più professionale se vuoi diventare un vero giocatore. E ci ho provato: ad andare a letto all’ora giusta, a non bere mai, a evitare le feste, a dedicarmi interamente al tennis. Ma non faceva per me. Sono precipitato in classifica, l’anno scorso ero 240. Era diventato un lavoro, e non funzionava».

"Sono come un orso, posso andare in letargo per mesi"

Adesso hai cambiato obiettivi?

«Non ho obiettivi… No, davvero: vincere non dipende così tanto da te, non solo almeno. Ci sono migliaia di persone che hanno più talento di me, o si allenano più duramente. Eppure io sono qui e altri no. Forse perché le regole sono fatte così? O perché Dio mi ha dato un dono, non lo so. Ma non dirò mai: voglio diventare numero uno. Voglio solo esser un tipo tranquillo che gioca a tennis. Forse ho anche il talento per arrivare fra i primi 10, il mio manager me lo dice spesso, ma può darsi che non succeda mai».

Il tuo colpo migliore? Meglio: quello che ti diverti più a tirare?

«Il servizio. Il serve & volley. A volte servo anche sottomano, ma ora sto cercando di essere un po’ più disciplinato. Ho iniziato a giocare in campi importanti, contro avversari molto forti, e devo farlo, devo metterci più passione perché questo mi ha portato nei primi 50. Diciamo che cerco di essere più concentrato quando sono in campo e di non fare troppe fesserie».

Il torneo che ami di più?

«Una volta dicevo Monte-Carlo, adesso forse gli Aussie Open, o gli Us Open».

Ho letto che consideri dormire una tua specialità. Ma ti viene meglio indoor, outdoor, sul duro, sul rosso?…

«Posso dormire ovunque! Però giuro che dall’inizio del 2020 ho iniziato a svegliarmi alle nove tutti i giorni. Se vuoi però posso andare a letto adesso (sono le 5 del pomeriggio, ndr) e svegliarmi domani alle nove di mattina. Sono come un Orso, che va in letargo per tre mesi in inverno. Però devo essere fresco di doccia, con lo stomaco pieno e in un buon letto».

Il tatuaggio: "A volte devi combattere anche con Dio"

Altro punto forte: le feste.

«Ehi, sono russo, che devo farci? E’ nella nostra natura. Se senti un russo dire che non ama andare alle feste, non credergli: ti sta imbrogliando».

Ultimamente non ve la cavate male neanche sul campo, però. Spiegazioni?

«Non lo so. In effetti di russi al 100 per cento o con solo una metà russa - Shapovalov, Zverev, Tsitsipas - ce ne sono parecchi in classifica. Forse è merito dell’ottima scuola che abbiamo ereditato dal passato. O più probabilmente del fatto che siamo allenati dai genitori. Papà Zverev, mio padre, la mamma di Rublev, mamma Shapovalov…».

Passiamo al Bublik extra-tennis: mi spieghi questa passione per l’Amleto?

«Sì, to be or not to be… L’ho visto anche in teatro, ma la verità è che un giorno mi hanno chiesto quale era la mia lettura preferita, ero di fretta, e ho detto l’Amleto. Adesso mi sono spostato su George Orwell, 1984, gran bel libro. Ne ho parecchi nel mio iPhone».

Di che genere?

«Storia, soprattutto sugli anni ’20 o ’30 del secolo scorso. Non mi piace il fantasy o la fantascienza: non darmi Harry Potter. Sono convinto che per capire il futuro sia importante conoscere il passato».

Hai anche molti tatuaggi…

«Ne ho uno in italiano sul braccio… Sei una persona religiosa? Guarda (e si sfila la maglietta, ndr): ‘A volte devi combattere anche con Dio’. L’ho letto in un libro russo, ma non volevo che nessuno lo capisse così l’ho scritto in italiano. Mi piace l’Italia, adoro il cibo, soprattutto, gli spaghetti, la bruschetta, il vino. E in giro per tornei sto bene con Berrettini, Sonego, Cecchinato».

Per caso sai cucinare anche tu?

«Se io cucino, morite tutti». Magari dal ridere.

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